30 Oct
30Oct

Figlio della Rivoluzione francese, del burrascoso periodo napoleonico e poi della Restaurazione austriaca, sfuggito alle mode letterarie del suo tempo, ad ogni forma di classificazione, alle correnti di pensiero e di politica imperanti, Giacomo Leopardi fu considerato a lungo dai suoi contemporanei e oltre un anticonvenzionale chiuso nel suo mondo solitario, un letterato privo di contenuti e di pathos. Ma il Recanatese fu tutt’altro: egli utilizzò la sua poesia come strumento per smuovere gli animi e la ragione, poichè sentiva dentro di sé il profondo bisogno di trovare un senso al deserto dell’esistenza umana. Una eccezionale personalità che è riuscita sempre a mantenersi distante ed estraneo nei riguardi del proprio tempo. Da qui, il motivo per il quale affascina ancora oggi tanti giovani che si avvicinano alle sue opere. Essi trovano in lui il “maestro del disorientamento cosmico”: una guida, un esempio e in primis un uomo che non ha mai scritto quanto sia facile vivere, ma ci ha tramandato gli strumenti con i quali vivere: la RAGIONE, il SENTIMENTO e l’IMMAGINAZIONE.

La sua vita fu costellata di sofferenze e al contempo priva di affetto; quell’affetto che solo in poche occasioni reclamò supplice nei confronti della madre, fredda e severa: “Cara mamma, io mi ricordo ch’ella quasi mi proibì di scriverle, ma intanto non vorrei che pian piano ella si scordasse di me. […]soprattutto la prego a volermi bene, com’è obbligata in coscienza, tanto più ch’alla fine io sono un buon ragazzo, e le voglio quel bene ch’ella sa o dovrebbe sapere”.

Giacomo si rivelò già nei suoi primi anni di vita un “enfant prodige” e la vastissima biblioteca del padre Monaldo sostituì ben presto i giochi e la spensieratezza della sua infanzia. Iniziava così quella prima fase, lunga sette anni, conosciuta da tutti come “periodo di studi matto e disperatissimo”, durante la quale si appassionò agli studi classici e cominciò ad avere una visione del mondo, si iniziavano a dischiudere per lui nuovi orizzonti attraverso il mezzo della conoscenza. Un’arma questa a doppio taglio perché, se da una parte apprendeva la gloriosità ed i valori del mondo antico, dall’altra inevitabilmente confrontava quest’ultima realtà con quella nella quale era costretto a vivere, così precaria, angusta e disperatamente infelice. Tale status nefando risuona anche nelle intime lettere di corrispondenza con il suo primo grande amico, ovvero Pietro Giordani, letterato classicista: “Io v’aspetto impazientissimamente, mangiato dalla malinconia, zeppo di desiderii, attediato, arrabbiato, bevendomi questi giorni o amari o scipitissimi, senza un filo di dolce né d’altro sapore che possa andare a sangue a nessuno”. A soli vent’anni il giovane Leopardi capì e avvertì la sua società come “nemica dei valori autentici della natura”. Erano gli albori di quello che di lì a breve sarebbe diventato il suo pensiero, il cosiddetto PESSIMISMO COSMICO.

Egli visitò Roma, Milano, Bologna e Pisa ma consapevole di far sempre ritorno al “natìo borgo selvaggio”; luogo ostile al poeta, in cui visse spesso isolato rimembrando l’infanzia in un opprimente presente. Tuttavia, fu nei periodi più infelici della sua vita che compose i capolavori più grandi: Le Ricordanze, A Silvia, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio… . 

Ma quali sono dunque i caratteri che fanno della sua poesia un modello per la modernità? Oggi, come allora, l’uomo è spinto secondo coscienza a porsi degli interrogativi sulla natura, sulla felicità e sulla propria condizione umana. Ecco perché nella formazione dell’uomo moderno Leopardi ha ancora un posto decisivo. La sua lezione ci spinge a farci carico della realtà delle cose, a indagare su noi stessi e sulla nostra modernità. A tal proposito, così affermava anche Giosue Carducci, fingendo che Leopardi potesse parlare alle generazioni future: “Voi godete; e siate liberi, se potete; ma per essere tali, odiate e scuotete da voi la falsità, la vanità, la vigliaccheria dell’educazione e del pensiero, che fu la tabe de’ vostri vecchi. – Così io credo che parlerebbe Giacomo Leopardi agl’italiani, se i morti si curassero di far la predica ai mal vivi”.  

    

BENEDETTA MARCHESE


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